Achille Bonito Oliva, Pascali: la scena mediterranea,
in Pino Pascali, catalogo a cura di Anna d'Elia, Edizioni Laterza, Bari, 1983
L'opera di Pino Pascali se, da una parte, affonda le sue radici nella cultura degli anni Sessanta, dall'altra prolunga le sue propaggini fino nell'attualità. Egli ha operato nel contesto romano, attraversato dalla lezione materica ed oggettuale di Burri, dal quale i giovani artisti dei primi anni Sessanta avevano appreso il gusto dell'oggetto e della sua espansione, la possibilità di sconfinare dalla rigidità bidimensionale della superficie pittorica, mediante l'assunzione di materiali carichi di spessore e di vita.
Gli anni Sessanta si erano aperti all'insegna dell'azzeramento e del desiderio di partire da questa dimensione di tabula rasa , per costruire immagini legate al tessuto culturale e sociale. Dopo la gestualità estenuante dell'Informale che riportava tutto al valore dell'espressione interiore, l'opera di Buri era l'unica che sembrava garantire il riferimento anche alla vista esterna, a quella appunto dell'oggetto quotidiano vibrante di esistenza nascosta e silenziosa, capace di darsi come testimonianza del tempo e del vissuto.
Infatti il quadro di Burri è costruito con materiali trovati, carichi di quotidianità sospesa. Non soltanto il sacco cucito sulla superficie, ma anche il legno che si incunea dietro la superficie ed estroverte la tela, dandole una tridimensionalità tesa vero l'esterno, verso lo spazio del pubblico, laddove palpita la vita reale. Un atteggiamento fenomenologico, di sospensione di giudizio, promuove tale possibilità: l'oggetto viene recuperato nello spazio dell'arte destituito della sua provenienza specifica seppure carico di vita.
Gli anni Sessanta inizialmente sono segnati dalla folgore della Pop Art americana, che porta la ricognizione urbana a condizione artistica. Le immagini della città e della produzione industriale vengono assunte come pretesto per una operazione linguistica capace di spostarle dal piano basso della loro provenienza a quello alto della produzione artistica. La città americana, luogo dell'artificio per eccellenza, ma anche luogo di vitalità e di tensione esistenziale, crogiolo di molte istanze, di consumismo collettivo e di solitudine individuale.
Diversa la condizione della città europea ed italiana in particolare. Diversa l'identità di una città come Roma, produttrice di ben altre immagini, di un passato divenuto paesaggio e storia ed innanzitutto storia dell'arte. Anche qui batte la vita moderna, ma filtrata da una condizione storica in cui i simboli ed i miti non sono il grattacielo ma il Colosseo ed i Fori romani. Dunque, se dopo l'azzeramento bisognava inscrivere sulla superficie del quadro e della scultura un'immagine, allora non si poteva prescindere da questa realtà.
Azzerare significava rallentare la gestualità e l'urgenza del soggetto che la produce, spostare la propria attenzione d'artista verso l'esterno. Qui egli trovava un paesaggio urbano tutto giocato sull'evidenza spettacolare tipica dell'arte barocca, sul piacere del coinvolgimento della sensibilità e della sorpresa, un luogo di perenne seduzione, segno distintivo di una città eterna. Il Barocco romano infatti poggia il suo valore sulla durata della stupefazione ottenuta mediante una pratica estenuata della evidenza formale: questa è l'ottica con la quale viene vista Roma ed anche la sua storia più antica.
La specificità scenografica di questa città si innesta con la biografia professionale di Pascali che ha proprio studiato scenografia. Tale innesto è rafforzato dalla libertà operativa derivante dalla disinvoltura di Burri nell'utilizzare e trasgredire la bidimensionalità del quadro. L'artista barese si attesta nell'ambivalenza tra pittura e scultura, con un gusto della rappresentazione che lo porta a forzare il linguaggio verso la dimensione della scena. La cornice diventa il confine ed il contorno dell'immagine, intesa come animazione e teatralizzazione della sua fissità.
Naturalmente Pascali non riduce l'opera a prodotto e né si riduce ad una pratica di pura manualità artigianale, ma inscrive l'opera in una mentalità più vasta che tiene conto dell'idea dello standard, della serialità dell'immagine. Infatti realizza costruzioni in cui il materiale si ripete nella sua unità di misura: il Muro (1964) per esempio è i risultato di piccole superfici che si ripetono e portano scritta la parola 'pietra'. Dunque la materia ma anche la sua idea, la pratica artigianale (che designa la discontinuità manuale) ma anche la mentalità specifica dell'universo tecnologico (che implica la ripetizione).
L'opera diventa un manufatto elaborato con la febbrilità del costruttpre che però non usa materiali pertinenti, ma si serve come un bricoleur di elementi spuri piegati però ad un altro uso. L'immagine fa tutt'uno con il materiale adoperato ed il materiale diventa esso stesso immagine, in quanto invade e pervade l'opera del suo spessore, che a sua volta asseconda la rappresentazione. In questo senso Biancavvela (1964) è un punto di arrivo di una capacità tecnica e nello stesso tempo rappresentativa, in cui concorrono la sperimentazione di una diversa dimensione dello spazio pittorico, non più bidimensionale, e di quello scultoreo, dato frontalmente come nella visione pittorica. Infatti la cornice racchiude un'immagine che tende ad identificarsi con il materiale: la vela bianca si estroverte verso l'esterno, fondando una tridimensionalità ottenuta appunto come nei quadri di Burri, mediante un rigonfiamento della superficie ottenuto con fisica evidenza